Ebook: diritti (e rovesci) del diritto d’autore

Parlare di protezione dei testi digitali sembra oggi una grande sfida. Una sfida che si combatte su di un campo minato a suon di tonanti pareri contrastanti.

Ogni Paese ha infatti le proprie regolamentazioni (che troppo spesso ricalcano ancora i vecchi modelli riguardanti l’editoria cartacea) e creare un “decalogo globale” è pressoché impossibile, data l’assenza di un riferimento giuridico univoco. Se a tutto questo aggiungiamo poi il fatto che la circolazione di un qualsivoglia testo diventa difficilmente mappabile una volta entrato nei lunghi (e a volte “oscuri”) canali della Rete, il tutto si complica.

Come accennato, in molti Paesi la distinzione tra prodotti cartacei e digitali pare non essere stata ancora afferrata. Si continua quindi a trattare i due campi alla stessa stregua.

In Italia, per esempio, esiste il concetto di diritto d’autore, che è disciplinato da una legge dedicata, la n. 633 del 1941. Un po’ vecchiotta, direte voi, soprattutto se si pensa che – a parte qualche rarissima modifica – il suo impianto è rimasto sostanzialmente identico negli anni.

I settori maggiormente modificati dal passare del tempo sono quelli relativi, per esempio, alla pirateria digitale (di opere letterarie in senso stretto, come anche di opere musicali o cinematografiche) – il cosiddetto free riding, che si verifica ogni qualvolta si accede a un contenuto informativo eludendo il pagamento previsto per utilizzarlo – , alla tutela delle banche dati, alla creazione e protezione del copyright digitale, alla protezione del chip, e via discorrendo.

Il cugino di matrice anglo-americana (legata cioè ai cosiddetti sistemi di common law) dell’italianissimo diritto d’autore è il famoso copyright, la cui principale differenza risiede nel tutelare maggiormente i diritti patrimoniali derivanti dallo sfruttamento dell’opera dell’ingegno, piuttosto che i diritti morali dell’autore.

L’entrata in scena del nuovo universo digitale ha sensibilmente impattato su questo ambito legislativo, che vede sorgere ulteriori complicanze.

Un’informazione priva di materialità è per sua natura più vulnerabile, quindi necessita di una maggiore protezione. Tutto ciò, però, non deve frenare la possibilità di far circolare in forma gratuita, dietro benestare dell’autore o degli autori, l’informazione e la conoscenza.

La struttura classica del diritto d’autore, come anche quella del copyright, risulta ad oggi eccessivamente rigida, se riferita al campo digitale. Ciò ha portato allo studio di alcune possibili alternative.

Il primo tentativo in tal direzione è stata la creazione della GNU General Public License (GNU GPL), una forma di licenza sviluppata da Richard Stallman nel 1984 con l’obiettivo di sedare le lotte tra software a pagamento, i cosiddetti programmi open source e i sostenitori del software libero. Nasce così il concetto di copyleft, la cui terminologia, applicata in un secondo momento, prende origine da un divertente gioco di parole basato sul fatto che il termine right di copyright indica in inglese sia la direzione «destra», sia il termine «diritto» in senso legale. Tale natura opposta è servita da spunto per rappresentare graficamente il simbolo del copyleft che restituisce un’immagine, per così dire, “specchiata” del simbolo del copyright.

Il copyleft è in pratica un sistema di licenze che dà il pieno controllo dell’opera all’autore, il quale ne stabilisce modi di utilizzo, diffusione e a volte anche modifica da parte dei fruitori, pur nel rispetto di alcune condizioni basiche.

In Italia l’applicazione di tale concetto è ancora una chimera. L’esistenza della SIAE, quale organo superiore di gestione dei diritti di utilizzazione, è un ostacolo insormontabile per qualsiasi agile atleta di salto in alto: l’ “affiliazione” a tale ente non permette all’autore di promuovere e diffondere la propria opera tramite canali altri.

Rappresentazione grafica delle quattro varianti del progetto Creative Commons. (Fonte: //www.creativecommons.it/Licenze)

Una serie di licenze create, invece, per ambiti non strettamente informatici è quella delle Creative Commons. Il progetto sembra realmente interessante: a una licenza “base”, formulata da un team di giuristi legati al progetto, si accostano quattro varianti combinabili tra loro, allo scopo di “ammorbidire” la rigida struttura del copyright. In che modo? In pratica, attraverso questo set di licenze, l’autore – o chi detiene i diritti di copyright – può trasmettere alcuni di questi diritti al pubblico e conservarne altri.

La formulazione dell’intera struttura fa sempre riferimento – nella fase iniziale – al sistema giuridico statunitense in cui è nata, per poi appoggiarsi all’ordinamento locale (nel nostro caso la base è sempre la legge del ’41 sul diritto d’autore). In Italia il progetto approda nel 2003 ed è seguito da due grandi istituzioni: il Dipartimento di Studi giuridici dell’Università di Torino per quanto riguarda gli aspetti legali e l’IEIIT-CNR di Torino per quanto riguarda gli aspetti tecnico-informatici.

Allo scopo di facilitare la comprensione delle quattro clausole, sono state create delle visuals, cioè delle icone, che le rappresentano graficamente.

Rappresentazione grafica delle parti di una licenza Creative Commons (Fonte: //creativecommons.org/worldwide)

Altra particolarità che secondo i più ha contribuito al successo delle Commons è la struttura, per così dire, di presentazione, composta di tre parti: il Legal Code, che costituisce la licenza effettiva che rileva a livello giuridico; il Commons Deed, una versione sintetica della licenza, priva di termini astrusamente giuridici, fatta apposta per tutti quelli che non si cibano quotidianamente di “giuridichese”; e il Digital Code, costituito da una serie di metadati necessari alla localizzazione della licenza da parte dei vari motori di ricerca.

Altra soluzione, e qui andiamo a toccare corde molto delicate, è quella dell’applicazione del DRM, al secolo Digital Rights Management. Il suo utilizzo, come ormai noto, ha fatto infuriare orde di lettori digitali che, accolta di buon grado la tecnologia, si sono visti sbarrare la strada verso la lettura.

Si tratta di sistemi tecnologici che si pongono come obiettivo primario quello di proteggere i titolari del diritto d’autore, e i diritti ad esso connessi, affidandone la gestione direttamente ai suddetti titolari. Tutto ciò ovviamente avviene inibendo la copia e/o la stampa non autorizzata dell’opera e limitando il numero di device su cui un ebook può essere letto.

Alcuni di questi software vengono rilasciati direttamente da aziende che producono anche dispositivi di lettura (è il caso di Amazon, per esempio), altri invece vengono semplicemente gestiti da aziende terze, come nel caso di Adobe, leader incontrastato con il suo Adobe Digital Editions.

Rappresentazione grafica del meccanismo di funzionamento di DRM Adobe

Nato con l’obiettivo principale di combattere la pirateria, il concetto “chiuso” di DRM riesce a scontentare, però, anche chi i contenuti li acquista in maniera lecita; questo per via della sua estrema rigidità che, lungi dall’essere riuscita a contrastare in maniera radicale il fenomeno del free riding tanto paventato, si teme possa addirittura spingere alla pirateria digitale i lettori più corretti.

Soluzioni più “soft” semplificherebbero, forse, il processo di lettura digitale e la renderebbero più appetibile, soprattutto agli occhi degli scettici tradizionalisti (tra le cui fila, a volte, m’intrufolo!). È il caso di sistemi quali il social DRM o watermark, che anziché inibire la copia di un contenuto, integra al suo interno una serie di dati relativi all’acquirente per rendere il file univocamente riconducibile a chi lo ha acquistato, scoraggiandone in tal modo la sua duplicazione e diffusione irregolare e rendendo possibile la fruizione del contenuto su diversi device.

E voi, cari lettori digitali, che cosa ne pensate? Credete che le soluzioni studiate fino ad ora per tutelare autore, opere e diffusione del sapere siano accettabili o no? E nella vostra pratica di lettura quali preferite?

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5 Comments

  1. Una precisazione: da quanto mi risulta, un autore non ha obbligo di iscrizione alla SIAE e puo’ tranquillamente gestire da se’, come meglio crede, i diritti derivanti dalle proprie opere.

    Inoltre, se si distribuisce (vendita compresa) software tramite download (come nel caso degli eBook), non c’e’ obbligo di adempiere agli stessi obblighi (e.g., bollino) che si avrebbero, ad esempio, distribuendo CD musicali.

  2. (Ops, mi e’ partito un invio di troppo)

    Circa la questione della protezione: e’ dimostrato che il DRM non offre una protezione efficace, e in piu’ limita/infastidisce i consumatori onesti. Non e’ un caso che l’industria discografica se ne sia liberata: prima o poi succedera’ anche con gli eBook.

    Il watermark e’ accettabile come sistema “deterrente” (e’ comunque “aggirabile” pure esso), ma quello che veramente serve e’ un cambio (anche normativo) nella gestione dei rapporti tra editore, autore e lettore.

    Personalmente auspico un cambio di paradigma nella concezione del “bene eBook”: da prodotto (“compro (una licenza per leggere) il file”) a servizio (“compro l’accesso a una “biblioteca virtuale” dove posso leggere quello che e quanto voglio).

  3. Patrizio says:

    Devo dire che noto sempre più spesso, soprattutto tra i giovanissimi, la convinzione che non si debbano pagare i contenuti reperibili in rete, qualunque essi siano. Sarà per il fatto di potervi accedere con un semplice click, sarà che hanno meno disponibilità economiche o semplicemente il gusto del proibito, ma non mi pare che la gente un pochino più informatizzata si faccia poi tanti scrupoli nello scaricare a sbafo. So di gente con hard disk pieni di film e musica, per i quali non ha sborsato un solo centesimo. Al di là delle questioni morali, trovo controproducente un tale atteggiamento proprio per l’utente stesso. Lo dico a ragion veduta, essendoci passato anche io, salvo poi pentirmene per un motivo semplicissimo: quando si accumula tanto materiale in questo modo, si finisce per non fruirne mai. Diventa un gesto compulsivo, un voler accumulare a tutti i costi che sposta sempre più in là il momento in cui ci si dedica al contenuto scaricato. Personalmente, ho notato che quando le cose le pago le uso davvero, altrimenti rimangono lì, un ammasso di byte che non si sa quando riceverà la mia attenzione.
    Oggi sento di gente che ha ereader pieni di ebook scaricati illegalmente. Gente che ha qualcosa come 6000 libri non letti -e che probabilmente non lo saranno mai- nel proprio dispositivo elettronico. Non riesco a non vedere me quando scaricavo musica e film in questi atteggiamenti.
    Da quel che vedo, credo che il problema più importante non sia tanto il DRM in sé, né il non poter cedere a terzi l’uso dell’ebook che si acquista, ma il prezzo e la mancata possibilità di spostare i propri file su ereader diversi, specie se si vuole migrare da un dispositivo mobi a uno epub e viceversa. Sulla carta, quanto previsto da certi produttori di ereader è perfetto: ti dò il mio lettore, accedi ai miei contenuti -e tali saranno sempre in quanto ti sto solo concedendo una licenza- e lo puoi fare solo sul mio dispositivo. Questo concetto, tra tutti, è il più assurdo, ancorché comprensibile dal loro punto di vista. Una soluzione, volendo ci sarebbe pure, ma non so quanto sia praticabile.
    Anzitutto andrebbe risolta la questione dell’IVA, che è più alta per gli ebook rispetto ai libri, ma se non erro proprio di recente l’Europa ha ribadito che così deve essere. A questo punto allora che si abbassi il prezzo in virtù del fatto che ci concedono una licenza e non il pieno utilizzo. Pagheremmo il prezzo pieno per un libro di carta che sappiamo non essere mai nostro? Tanto varrebbe allora creare una sorta di noleggio: si paga meno e passato un certo arco di tempo decade la licenza. Forse non è il massimo, ma potrebbe essere un’alternativa che alcuni troverebbero interessante.
    Altro discorso è il DRM e soprattutto il fatto di non poter migrare da un sistema a un altro. Questo, a mio avviso, è l’aspetto più irritante per l’utente finale. Il discorso dei prezzi è soggettivo e nessuno ci obbliga a fare un acquisto. Una volta acquistato qualcosa, però, non vedo perché non poterne fruire legalmente a piacimento, ovunque vogliamo. A quel punto è l’editore -o chi per lui- a poter fare la differenza, concedendo la ‘mobilità’ dell’opera. Si potrebbe fare in modo, ad esempio, che il watermark attesti il regolare acquisto da parte di un dato utente e nel momento in cui questi volesse cambiare dispositivo di lettura (e magari anche formato) sia possibile scaricare gli stessi ebook nel nuovo formato. Meglio sarebbe se il tutto si potesse fare in automatico dal device stesso. Mettiamo che io abbia finora utilizzato solo un Kindle contenente 500 ebook regolarmente acquistati in formato mobi e tra 3 anni mi stufi e mi compri un nuovo dispositivo. Una soluzione potrebbe essere quella di permettermi di spostare manualmente tutti i miei file su quest’ultimo il quale, una volta connesso al wifi e collegandosi ai server del produttore, mi darà la possibilità di riscaricare quanto da me precedentemente acquistato nel formato adatto al nuovo ereader.
    La tecnologia sufficiente oggi c’è. I servizi cloud pure. La volontà forse no.
    Più i sistemi sono chiusi più si tenderà ad arginarne le protezioni. Adesso magari sono in pochi a barcamenarsi con Calibre e servizi affini, ma tra pochi anni, vista la crescente informatizzazione e i nativi digitali, tutto questo sarà alla portata di tutti indistintamente e a quel punto sarà troppo tardi. Né possono fingere di non sapere quale sia la realtà dei fatti. Continuare a farlo può solo nuocere a loro e -soprattutto- a chi decide di fare della scrittura il proprio mestiere.

  4. Patrizio, hai sollevato questioni urgenti e per ora irrisolte del mondo ebook. Il download bulimico di file dalla dubbia provenienza nasce già dalla mancanza di un’educazione alla lettura: scarico senza pagare ma, sempre che poi legga, di quale edizione si tratta? Tradotta da chi, curata da chi? Il rispetto della fonte, dell’autore, della cura editoriale dove li metto?
    Riguardo alla proposta di ebook in prestito a scadenza ci sono esperienze di digital lending, ma trovano fortissime resistenze da parte degli editori (fanno fatica a rilasciare il catalogo in digitale per la vendita a prezzi alti, figurarsi dare ebook in prestito, in affitto).
    La possibilità di migrazione della tua intera biblioteca ebook in caso di cambio ereader è lasciata a te come singolo e alle tue capacità di fare scelte e archiviare meticolosamente. Forse nella speranza (che è una certezza, ahimé) che ti debba ricomprare un’altra volta tutti i libri digitali.
    D’altronde anche un gatto può vantare le sue sette vite, ma con i DRM Adobe un ebook ne ha solo sei! 😉

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